Un racconto in sei gesti di questo primo mese di pontificato di Papa Francesco
L’inchino al popolo
Il Vescovo di Roma, come ama chiamarsi Francesco I, non intende i suoi primi passi come l’inizio di un regno ma come l’aprirsi del suo servizio alla Chiesa, a tutto il popolo di Dio in cammino nella storia.
Per sottolinearlo, non si presta all’acclamazione trionfale di un monarca ma si china dinanzi ai fedeli riuniti che vuole raccolti in preghiera, perché implorino la benedizione di Dio su di lui: Servo dei Servi nella carità e come tale nella postura del povero.
Il primo dei gesti che diranno, nella loro semplicità, che si sta aprendo una stagione nuova: spoglia, orante, diretta e ilare.
La carezza a Cesare
Lo sguardo del Pastore scorse fra la folla chi più aveva bisogno di accoglienza, perché sofferente, colpito nel corpo, nella vitalità.
Sarebbe bastata una benedizione da lontano, a distanza. Francesco fa saltare il protocollo e la rete di protezione tesagli intorno, si slancia, dimostrando concretamente quella tenerezza che vuole essere il sigillo del suo servizio e che impregna tutto il suo agire.
Non è pena, dispiacere, è qualche cosa di più, di più profondo: è com-passione, nel suo significato di radice, un patire insieme, un non lasciare solo chi ha maggior bisogno di sapersi accompagnato.
L’Ok alla sua gente
Il saluto crea una corrente viva di sentimenti, di stati d’animo che si susseguono in cui le persone si ritrovano, si riconoscono. Troppo spesso tutto è formale, per non mancare all’educazione o, peggio, all’etichetta. Tutto manca di calore, di immediatezza.
La mossa di Francesco taglia la prospettiva, costringe ad interrogarsi: quest’uomo non è un demagogo, non conclude un comizio e neppure è un imbonitore che vuole venderti la sua merce.
Ti viene incontro perché solo tu gli interessi, tu che con lui stai cercando il Signore della tua vita e della tua vita eterna: nella gioia della fraternità.
I poveri nella testa e nel cuore
La nostra gestualità dice chi siamo in quel sottofondo che è la nostra singolarità, talvolta incomunicabile o non comunicata. Quella attuale non attira molto, troppo spesso è insolente o degradante.
Il richiamo alla mente ci dice che Francesco non è persona di sola emotività o facili calorosità, è persona di autentica e ferma fede che coinvolge nell’adesione tutta l’umanità con il dono della ragione che ben ci distingue dal regno animale. Fede significa libertà somma, perché il nostro Dio “se è paziente e ci attende sempre” è, in primo luogo, il Dio che rispetta il nostro voler essere liberi.
L’incontro con Benedetto
È la prima volta, nella secolare storia della Chiesa, che ne abbiamo due: due uomini biancovestiti che nella fede riconosciamo Vescovi di Roma. Incarnano due momenti storici diversi, difficoltà e problemi universali, strettoie e momenti bui. L’uno conclude, l’altro inizia. Certo, se le cose stessero solo così, basterebbe chiudere e non iniziare.
Lo sguardo di entrambi però, se per l’uno si è posato e per l’altro si poserà sulla storia dell’umanità e del popolo di Dio in cammino, non trae forza e vigore da se stesso ma da Colui che entrambi guardano e che li guida e li sorregge. Egli li unisce.
La lavanda dei piedi ai giovani detenuti
Il gesto va letto nella sua simbologia, evangelica per di più. Altrimenti rappresenta un non senso assoluto.
Francesco non ha voluto che si accorresse a celebrare il mistero del Corpo e del Sangue donato, è accorso lui stesso da chi non avrebbe potuto accorrere, da chi, nella nostra concezione di diritto e giustizia, sconta una pena ed è sotto chiave, mentre invece avrebbe bisogno di essere educato, maturato e crescere nella propria umanità.
Non è un gesto scontato, facile ed ineliminabile perché da sempre così si è fatto, è un gesto che richiede consapevolezza e trasuda com-passione.
Fonte: www.Agensir.it