Siria: il racconto di Manuela. Consegnati i primi aiuti umanitari

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Aiuti umanitari di FIDEM per i Bambini vittime della guerra in Siria

Siria, FIDEM, consegnati i primi aiuti umanitari. Un Natale al caldo anche per i profughi bambini. Conclusa la prima fase della raccolta “Nati Nudi, Storia di una tutina e di una mamma che le insegnò a volare”, iniziano i preparativi per la seconda.
L’Ass. Cult. Fidem- Festival delle Idee Euro.Mediterranee rientra dal confine turco siriano dopo aver consegnato i panni e acquistato il latte con le quote donate durante la prima fase della raccolta fondi legata al progetto “Nati Nudi, Storia di una tutina e di una mamma che le insegnò a volare”, la prima missione di cooperazione internazionale dedicata ai bambini siriani ospiti dei campi rifugiati.

Abbiamo visto affrontare la guerra anche con un sorriso di chi rischia la vita ogni giorno e dei tanti, religiosi e non, che operano per alleviare una popolazione martoriata, divisa tra i giochi di potere. La gente, le persone, sono lontane da certi rimpiattini. Pensano a sopravvivere. Abbiamo consegnato gli aiuti che ci avete donato, abbiamo visto e siamo pronti per raccontare. E insieme a voi dobbiamo fare di più. Questo è un Natale speciale, un Natale in cui l’austerità può farci riflettere su cosa è davvero importante. Noi vogliamo augurare Buon Natale a chi è costretto alla periferia, dove la vita cruda prende a morsi. Una periferia non geografica, ma dei diritti. Una periferia dove la persona umana viene mortificata. Il nostro augurio e il nostro impegno va verso i tanti, come i rifugiati siriani, che hanno diritto alla vita e alla pace. Il mare unisce e non divide”, ha dichiarato Manuela Vena, presidente dell’Associazione culturale FIDEM, appena rientrata.

 Contatti
Responsabile: Manuela Vena 3471963938
Email: manuela_vena@yahoo.it –
Ass. Cult FIDEM – Festival delel Idee Euro-Mediterranee
Email: fidem.festvial@gmail.com
Facebook: https://www.facebook.com/FIDEMFESTIVAL?ref=hl
Gruppo Nati Nudi: https://www.facebook.com/groups/299963406806223/?ref=ts&fref=ts
Link al Progetto: http://fidemfestival.wordpress.com/nati-nudi/

IL RACCONTO DI MANUELA IN FORMATO E-BOOK  CON LE IMMAGINI

Per prelevare il Link copia: http://comunicareitalia.it/ebook/fideminsiria/

IL RACCONTO DI MANUELA IN FORMATO TESTO’:

Vi racconto come sono arrivata da Perugia a Kilis per i bambini siriani“. FIDEM ha consegnato i panni della raccolta fondi di tutine e quote latte legata al progetto “Nati Nudi” a favore dei piccoli siriani ospiti dei campi profughi informali di Farouk, Hacq, Karameh, Mustakbal. La testimonianza di Manuela Vena, appena rientrata.

“Tu sei re Artù e io il cavaliere della tua tavola rotonda”
Ettore Mo

Quello che segue è il racconto dei giorni che l’Associazione Culturale FIDEM (https://www.facebook.com/FIDEMFESTIVAL?ref=hl) ha trascorso a cavallo tra Antakya, città del sud della Turchia a ridosso del confine siriano, e la guerra. Non è solo l’occasione per parlare del progetto “Nati Nudi” (https://www.facebook.com/groups/299963406806223/?ref=ts&fref=ts) che ci ha portati fin lì, ma la nostra maniera per restituire a quanti hanno sostenuto noi e la missione di raccontare e di “rendicontare” la vita feroce dei profughi, di chi rischia la vita ogni giorno e dei tanti, religiosi e non, che operano per alleviare una popolazione martoriata, divisa tra i giochi di potere di una dittatura che vacilla e quelli di gruppi con pochi scrupoli che si sono impossessati della sommossa popolare. Ma la gente, si sa, è lontana da certi rimpiattini. Le persone pensano a sopravvivere. E lo fanno mettendo in moto reti informali di solidarietà. Sono questo pragmatismo e questa umanità che noi raccontiamo. Raccogliere documentazione fotografica e video è stato molto complesso e a volte impossibile per non mettere a repentaglio la sicurezza delle persone, siriani e non hce operano per i rifugiati.

Roma – Istanbul. Decollo. 18 D è il mio posto, PEGASUS la compagnia aerea. Antakya la destinazione, Il confine siriano la meta. Istanbul una tappa intermedia. Mi preparo al decollo, il momento che più mi piace perché immediatamente a metà tra l’ipotesi e la possibilità di volare, sfida eccezionale al nostro essere creature terrestri. Non bevo il caffè turco servito al modico prezzo di 6 €, e ne parlo col signore afgano seduto affianco a me: “il nostro è migliore” e “lo credo” penso, ma nel giro di poco colgo che si riferiva a quello italiano e mi fa piacere perché spesso scopro nei rapporti con la gente che l’identità, ognuno se la qualifica come gli piace, aldilà di limiti e lacci burocratici e ideologici.

Il Mediterraneo nel cuore. Questo non è un viaggio come un altro, né un 3 dicembre come un altro. Oggi divento ponte tra due sponde che racchiudono il mio sogno e le contraddizioni che delineano una Regione talmente bella da meritare le attenzioni dei tanti signori della terra, al pari dei tanti signori dei suoi cieli: i primi impegnati a corromperla, gli altri a proteggerla, a quanto pare, con medesimi, orridi risultati. Due sponde divise da un mare prospero oggi foriero di disperazione e morte. Un mare padre di innumerevoli figli di terre madri, lingue e culti, riti, leggende e tradizioni diversi. Quali popoli si farebbero la guerra se ognuno dei propri singoli componenti, le PERSONE, fosse interpellato? Se milioni di persone attraversano l’inferno pur di approdare in Italia, avranno una qualche altra ragione a parte quella di venire qui a togliermi il pane di bocca?

Essere, e non esserci. Dicono che “i se non fanno la storia”, e lo dico anch’io, per questo sciolgo ogni riserva rispetto al fatto che non sia necessario esserci; è però necessario essere, perché se non si è, diventa davvero indifferente esserci, come pure avere, sapere, dire, dare, fare. Il display mostra la posizione dell’aereo che dalle coste brindisine si spinge verso quelle greche: più scendiamo e meno si sta bene in questo fine 2013 che ha segnato la Storia ed è esso stesso una storia in cui non possiamo solo esserci ma di cui dobbiamo essere.

Passaggio a Instanbul. Se Aleppo piange, Sparta non ride. Il passaggio dalla Grecia alla Turchia è caratterizzato da perturbazioni che sembrano dare forma ai pur reali corrispettivi sociopolitici che riguardano i rapporti tra i 2 Paesi. Sostare a Istanbul, ben sapendo che non la si potrà godere è un dispiacere. Ho solo il tempo di fumare una sigaretta, e ci mancherebbe altro: qui scopro nelle parole di Ruth, mia compagna di viaggio, che sono i greci a fumare come i turchi, almeno per come lo intendiamo noi italiani. La disponibilità di tutti mi ben dispone: ostacoli linguistici e tecnologici vengono superati senza colpo ferire.

Da Istanbul ad Antakya. In’ora e mezza giungerò dove comincia il viaggio vero: la missione Nati Nudi di FIDEM, che mi porterà in Siria con il cuore e con la mente. Spero che il bagaglio che ho imbarcato arrivi in tempo: mi fermo pochi giorni e il mio obiettivo è consegnarli di persona i 25 kg di abitini dei vostri figli che mi avete donato per i fratellini siriani. A volte la certezza di non essere soli scalda più della lana. Sapere che il mondo non ci ha dimenticato ci è necessario quando siamo vittime di paturnie e novembrini: servirà anche a chi dorme sotto un cielo di piombo da mesi? La parola PACE non mi ha mai evocato nulla di buono se non in relazione al proprio contrario. Tra 25 minuti atterrerò. Hamah, Latakia, le città che ho sorvolato, prima o poi le attraverserò in macchina, come pure Adana su cui passo in questo momento. Sul monitor vedo anche Aleppo, e spero presto di poter constatare che è tornata un luogo pacificato e salvo.

Lo sbarco. Sbarco all’aeroporto di Hatai rapidamente, ma devo attendere che lo zaino e insieme a lui il sollievo, si rifaccia vivo. Metto sulle spalle i miei kg di motivazione e chiedo ad un’inglese di farmi una foto. “Sure!”, risponde . Sorrido anch’io, pensando che siamo tutti stranieri gli uni agli altri in quanto incapaci di cogliere appena un filo aldilà dell’apparenza, tutti. Faccio capolino e compare il cartello “MANUELA” scritto in un bel corsivo, che tiene in mano Faharid. Mi accompagnerà fino all’Oasi Francescana di Sister Barbara. la religiosa che gestisce la Kallasgh’s House. “Welcome to Turkey”, esclama in un inglese zoppicante. Faharid è bonario e non cela la simpatia per gli italiani e la loro musica. Accende la radio: note ….. mi cullano su una via di strade sterrate che un po’ somigliano a quelle della Valle del Savuto.

Antakya, Kallasgh’s House. In meno di mezz’ora sono davanti ad una chiesa cristiana dietro cui sbuca una donnona sorridente che pure non nasconde un non so che di rude nel fare, come a non voler promettere premure e carinerie che vadano aldilà del doveroso. La Guest House è rustica e si compone di una serie di ambienti distribuiti sulle due pareti a ridosso di una viuzza stretta. Dal lunedì al venerdì, alle otto e mezzo di sera, fedeli di diverse religioni, persone che hanno compiono i propri percorsi spirituali si riuniscono per cantare assieme canzoni provenienti dalle proprie singole culture e dal proprio retroterra religioso. La mia stanza è spaziosa e piena di palloncini, lasciati dai bimbi coreani che c’hanno vissuto fino al giorno prima insieme alla mamma giornalista: Sister Barbara dice che secondo lei mettevano allegria, ed io condivido.

Sister Barbara. Nelle mail e negli sms dei giorni precedenti ho spiegato a Sister Barbara il cuore del progetto. “Mi piace quello che sei venuta a fare, ma anche cose belle possono essere pericolose”, mi dice. E quanto ha ragione, penso. Mi ripete se ho fame e mi offre della frutta dicendomi che è difficile prendere sonno con la pancia vuota, anche se condivide che in frangenti in cui lo spirito si nutre di esperienze forti, ci si sente sazi pur senza mangiare. Come dire “non di solo pane vive l’uomo”. Tra l’odore della frutta e della stufa ci caliamo in discorsi pratici. Non devo scusarmi più di tanto della repentinità con cui approccio l’argomento Siria, Barbara è abituata a viaggiatori precari che costruiscono il proprio itinerario in base alle risorse a loro disposizione in termini di contatti, materie prime, possibilità pratiche e frangenti bellici.

Nessuna traccia di Alaa. Mi conferma che Alaa, attivista siriano, non è più tornato da Aleppo – come immaginavo, visto che da qualche giorno non rispondeva alle mail che stavamo scambiando – ma che ciò non significa necessariamente che sia morto. Ciò mi rivela quale consuetudine abbia con la guerra e quanto dovrò fare attenzione. Oltre ad Alaa non è più lì neanche Monica, l’atra volontaria polacca che avrei dovuto incontrare. Avrebbero dovuto aiutarmi a consegnare  i panni e il latte agli attivisti siriani che li smistano ai campi profughi informali a ridosso del confine, quelli di Farouk, Hacq, Karameh, Mustakbal. Il numero enorme delle persone che hanno bisogno di aiuto – percepito in tutta la sua grandezza nel rude accento della suora preoccupata di prepararmi a quanto mi attende – ridimensiona la valenza che finora avevo dato allo zaino e al suo contenuto.

Il contatto con Luis. Per la prima volta in vita mia l’ansia, la premura e i miei vincoli temporali vengono colti senza che debba sforzarmi più di tanto: Sister Barbara telefona a Luis, un cooperante spagnolo che potrebbe essermi utile. Luis arriva in pigiama e il modo in cui viene accolto mi racconta qualcosa in più di quella donna così avvezza al transito delle più disparate persone giunte alla sua dimora prima di averla conosciuta. Luis è schietto. Non ci mette molto a dire che ci sono dei rischi annessi alla missione: entrare in Siria in questo momento è impossibile per chiunque non sia siriano: “se sei italiano ti rapiscono sicuro, e forse ti ammazzano”. Non c’è pathos in quel che dice, il tono è di chi ti comunica che se mangi troppe ciliegie potrebbe venirti il mal di pancia. Lo ascolto, mentre Sister Barbara interviene poco e solo per agevolare la buona riuscita della missione.

Gli italiani rischiano di più. Luis conosce Ottavia la studiosa con cui ho avuto i primi contatti durante la preparazione della missione: “quella è pazza come te, è entrata in Siria meno di un mese fa ed è dovuta rientrare in Italia per minacce di morte”. Luis ha lavorato fino a 6 mesi prima presso una specie di mensa gestita da tre siriani che, venti giorni dopo che lui era andato via, “sono stati scannati, tagliare la cola no, non dite così?!”. L’impatto delle parole dev’essere stato visibile. “Bisogna sapere dove si va e cosa può succedere, ma non significa che va sempre così. Spesso però si”, mi spiega Sister Barbara. Luis mi chiede dettagli per suggerirmi chi tra i suoi contatti può essere idoneo. Dice nomi, spiega situazioni, chiede dettagli del progetto e alla fine dice “se parli francese puoi parlare con Marc, un pazzo che ha troppi contatti per non poterti aiutare e fa progetti come il tuo. Lui ti aiuta sicuro, e forse ti fa passare il confine: ma tu, italiana, sei più in pericolo di me, spagnolo, e lui, francese, è giusto che lo sai”. Lo so e le orecchie mi ronzano.

Dove hanno Rapito Padre Paolo dall’Oglio. L’ora tarda si deduce dalla postura di Sister Barbara, china sul braccio piegato: “s’è fatto tardi, andiamo a riposo. Tu domani devi avere molte forze e forse non bastano”. Vado a dormire così, e dopo un saluto accorato a Luis penso sia finita lì, invece, lui apre il discorso e dice: “dove ti può mandare Marc hanno rapito Padre Paolo, io lo conosco, e spero che ancora è vivo”. Non dormirò, ma stendere le gambe non farà mi male.

Andrea e Marc. La sveglia suona che ancora è buio. Sento bussare, apro e c’è Andrea, un reporter rientrato da un’intervista a profughi in fuga: “ciao, sei italiana vero? Vado a letto che sono sfinito, quando mi sveglio ti dico quel che vuoi”. Quando alle otto chiamo Marc non si stupisce del fatto che dall’altro capo del telefono ci sia una sconosciuta. Basta nominare Luis e Sister Barbara e reperirmi sarà facile. Se vuole aiutarmi dovrà contattarmi entro e non oltre le venti, avendo solo poche ore per portare a termine la consegna degli aiuti, e sincerarmi che giungano dove devono, preparerò un piano B e un piano C, se servissero. “Marc, spero tu riesca a incontrarmi, ma grazie comunque della disponibilità”, concludo.

Victor il tabaccaio. Per lasciare ad Andrea il tempo di riposare mi metto a girare per la parte vecchia di Antakya, Entro in una sorta di tabaccaio locale e la loro accoglienza mi spinge a fare le prime domande per regolarmi su cosa cercare e come trovarlo, tipo il latte in polvere, che sembra essere merce quasi illegale in questo momento: la guerra affama i civili, e chi può specula, quindi 2 + 2 continua a fare 4 anche qui. Victor, il proprietario del negozio, mi dice che, se voglio, più tardi posso passare a fare 4 chiacchiere “così ti racconto cosa sta succedendo alla mia città e tu mi dici cosa sei venuta a fare dall’Italia”. E mi consiglia di approfittare delle ore di luce per visitare la baraccopoli ai confini del centro abitato che mi darà una prima idea di come si sta oggi là.

Lo slum e il souq. Gente povera. Bimbi in quantità. Odore acre di carne macellata. Sguardi fugaci che si negano al confronto ma scrutano e identificano me come elemento estraneo. Sorrido a tutti: è facile, a parte le prime diffidenze. Colpisce il buonumore, così inimmaginabile e quasi stonato in quel contesto verista e crudo. L’ansia non esiste, la fretta nemmeno. Compro ortaggi e frutta al souq che si sparpaglia sui marciapiedi. Lo spremitore di melograni è un uomo armadio. Gli chiedo la via per tornare da Sister Barbara; mi dice che mi accompagna lui, “non è così vicino“, mi sono allontanata senza rendermene conto. Accende uno scooter e pretende che monti, e io lo faccio, nonostante pensi ch’è una follia. Passare in mezzo a vicoli fatiscenti e grovigli di umanità ridotta a un mucchio di stracci su ossa consumate, mi ha dato la misura di quanto il mondo sia sbilanciato in termini di diritti e doveri.

I contatti di Andrea. Arrivo alla Guest House. Andrea è sveglio e vuole sapere chi sono e cosa faccio. Si appassiona subito e mi propone un’alternativa. Può trovarmi una macchina e chi la guida. Io pago la benzina e il disturbo per arrivare a Kilis, la città turca adiacente alla Siria. Lì Andrea farà in modo, dopo non poche telefonate, di farmi trovare un siriano che mi faccia entrare nel campo informale (riservato a chi non entra nei campi ufficiali ONU) e, dopo aver spiegato a qualcuno dei trecento abitanti perché ho portato quella roba e raccontato della solidarietà delle mamme italiane, potrò distribuire il tutto. L’unica pecca nell’organizzazione altrimenti impeccabile di Andrea è il latte in polvere: “non so come aiutarti, lo pagherai un botto”. Restiamo d’accordo che, salvo smentite, farò come mi ha detto e l’indomani a mezzogiorno partirò coi suoi contatti, avendo in qualche modo comprato il latte.

Ore 17.30, corsa da Victor. Già buio. Corro da Victor, al tabacchi: chissà sappia aiutarmi col latte. Victor non solo sa aiutarmi con il latte, ma può anche portarmi a sua volta presso un campo, con le medesime modalità propostemi da Andrea. Victor parla inglese, ma è turco, e prima di arrivare ad un qualche accordo, mi coinvolge in una conversazione di tre ore, accompagnata da Nescafè e the turco. Victor comprende e accetta di buon grado di essere la terza alternativa.

La missione con Marc. Rientro alla base. Le venti sono passate e Marc non s’è fatto vivo. Non ho il tempo di cenare, mentre mi accordo con Andrea per gli ultimi dettagli del viaggio a Kilis. Bussano alla porta. “Sei Alaa?” – chiedo, sperando che sia riuscito a raggiungermi come aveva detto al mio collega in Italia via mail. “No, Marc”. Marc non coglie subito le mie intenzioni. Si offende perché ha già avvisato gli intermediari per l’acquisto del latte e non vuole smentire perché si rivelerebbe un collaboratore poco affidabile. Marc ha la stanchezza di chi da troppi mesi vive la guerra e non reagisco male. “I siriani dall’altra parte del confine hanno più bisogno, sono la priorità”. Anche se a mio dire non c’è reale differenza a distanza di 10 km, il fatto che sia in grado di aiutarmi con il latte me lo rende affidabile e addentro alla faccenda più degli altri. Disdico l’impegno preso con Andrea: ”non preoccuparti, qui cambia sempre tutto nel giro di dieci minuti, ci farai l’abitudine”, mi risponde. Marc è felice del risultato, ma continua a mettere alla prova la mia preparazione rispetto al contesto oltre che la mia pazienza. Appena acquista fiducia passa a descrivermi come agiremo domani.

L’incontro con Salim. Non sono ancora le otto che Marc bussa. Andremo di volata ad incontrare Salim, un suo amico, un collega dell’Associazione siriana partner di quella francese diretta da Marc. Raccontare il tragitto è difficile: il groviglio di stradine che tanto rimanda all’idea che abbiamo dei Paesi arabi era aggravato dal dover compiere percorsi periferici: i luoghi del contrabbando di beni di prima necessità, nascosti da interfacce ufficiali, non sono in pieno centro. Non è solo un supermercato che vende il latte in polvere, gestito da un siriano, ma è anche la sede di un organizzazione che supporta i rifugiati civili. Nell’ufficio dove mi portano, mi accoglie un signore in giacca che si esprime in arabo. A parte le battute legate alla mia occidentalità, mi si chiede poco chi sono e cosa faccio. E quando chiedo a Marc di tradurre a Salim (che parla anche turco, come Marc) cosa dico, per tradurlo in arabo all’uomo in giacca, mi sento rispondere che non è importante che cosa si vuole fare, ma cosa si fa.

La fiducia bisogna guadagnarsela. Arrivata lì avrei dovuto secondo lui capire che l’importante è il risultato, evidente nell’aver trovato il posto giusto, apripista del mio futuro ingresso in Siria, in previsione di cui mi si consigliava – non senza ironia – di dotarmi di velo. Resto nell’ufficio per più di due ore. E’ una rete di attivisti. La fiducia reciproca è alla base di ogni interazione, ma ce la si deve meritare, e le prove preposte all’ingresso di una sorta di cerchio della fiducia, spaziano dall’osservazione delle reazioni dei novellini ai racconti inerenti i rischi della propria attività in loco, alla messa in atto di pressioni annesse al dover prendere decisioni determinanti in modo rapido, valutando costi e opportunità. Sono a mio agio, anche se pare assurdo, non mi chiedo il perché e continuo a fare la mia parte.

La base è l’istinto. Quando riusciamo a uscire dal Supermercato ho firmato accordi e stretto mani. Spiegato lo scopo del progetto “Nati Nudi”, raccontato dell’Associazione FIDEM e chiarito il proseguire del nostro impegno per la Siria. Ho capito che chi non ha nulla da perdere, ha poca voglia di scherzare, ma non si lascia spaventare dalle complicazioni preposte ad eventuali azioni ritenute utili, per questo, non coglie la necessità di raccontartene i motivi spaventosi. L’istinto è alla base di ogni agire qui. Sempre.

Kilis, al confine. Io, Marc e Salim saliamo su un bus. Va alla frontiera. Kilis. Mi portano a vedere da vicino cosa c’è a pochi km perché ho detto loro che volevo avvicinarmi al confine e vedere con i miei occhi cosa comportasse per noi che immaginavamo di poterlo superare nei prossimi mesi. E mi accorgevo quanto sia evanescente un confine concordato entro cui si tenta di recintare problematiche non recintabili. Ci sono circostanze che per loro stessa natura non possono avere un perimetro netto. La Siria che cercavo non si ferma ai confini geografici; i campi allestiti a metà tra terre limitrofe oltrepassano la sovranità nazionale si stagliano in una Regione turbata da fame, freddo, paura e desolazione.

I campi profughi informali. Sono i campi informali, mi spiegano, i cui numeri sono comparabili a quelli delle tende ufficiali gestite dalle organizzazioni internazionali. Anche questo un altro bollettino di guerra. Non si parla dei motivi di questa suddivsione: in un luogo la cui regola sicura è l’assenza di regole non bisogna stupirsi.  Non possiamo avvicinarci più di tanto, la polizia turca fa i controlli e io non ho il pass: c’è troppo poco tempo e inoltre sta tramontando e mi dicono che non è prudente restare.

E’ giusto dare le prove del bene. Rientriamo che ho negli occhi le dimensioni di una tragedia enorme. Non ho più sulle spalle i panni, lasciati nel frattempo in un garage, sede dell’ONG di Marc, affinché siano consegnati. Ho conosciuto e stretto la mano all’uomo che li porterà sulle sue di spalle, in moto. Quando gli chiedo di scattare delle foto durante la consegna, così da mostrare ai sostenitori del nostro progetto che i loro aiuti sono davvero arrivati dove ce n’era bisogno mi vergogno, e mi scuso. As’ad sorride e dice che non c’è problema, che “è giusto dare le prove del bene”: ed io penso a com’è incredibile che qualcuno che si trova nel fondo del pozzo della brutalità umana sappia ancora dire la parola “bene” sorridendo, e consegnandomi una qualche strana fiducia nell’umanità. Ho gli occhi pesanti, e mi dicono che il freddo che sento è causa delle poche ore di sonno, ma non ho stanchezza.

Cinque amici al bar. Il rientro ad Antakya è silenzioso. Mi portano a conoscere due ragazzi siriani che lavorano in un’associazione che promuove l’informazione libera. Sono un blogger e un video maker, li incontriamo in un bar e concordiamo che dopo avermi raccontato dal vivo cosa fanno, si faranno intervistare lasciando che li riprenda. Bevo il terzo the turco, dopo altrettanti caffè, e mi faccio una ragione del poco sonno che in effetti non addebitavo all’ansia. Siamo cinque ragazzi che parlano al tavolo di un bar piuttosto elegante. Non sarebbe scontato dedurre la gravità degli argomenti di conversazione se si osservassero solo i nostri atteggiamenti: ridiamo, gesticoliamo e facciamo reciproca conoscenza; solo durante la ripresa video gli occhi dei due tradiscono l’emozione che già le loro voci lasciavano intuire. E anche se non capisco so che i sottotitoli sarebbero evitabili, tanto sono evidenti le proprie richieste di aiuto di tutto un popolo.

Le reazioni delle famiglie siriane. Avevo detto a Victor che volevo parlargli prima di partire, perché poteva farmi conoscere delle famiglie siriane che vivevano proprio in città. E così, dopo un caffè solubile consumato col padre del mio amico cosmopolita – Victor è turco,di padre siriano, sposato ad una tedesca, parla inglese e un po’ russo –, vengo accompagnata a casa di tre famiglie che non mi lasciano entrare. Victor spiega loro che voglio capire cosa sta succedendo e cercare di rendermi utile dall’Italia, ma sento rabbia verso gli esterni, e capisco bene che mi si assembli ad un gruppo di “osservatori passivi” che possono non essere graditi. Il pianto di un anziano che mentre mi scacciava mi benediceva l’ho fissato negli occhi;  mi è dispiaciuto non sapermi scusare in arabo: come deve risultare brutale essere scacciati non solo dalla propria casa, ma addirittura dal proprio Paese, per qualcuno di una certa età, non lo posso sostenere senza lasciarmi prendere dallo sconforto. 

La casa di Ade. A un tratto un bimbo moro mi prende la mano e mi tira verso un uscio. Anche se è buio vado senza indugi e Victor mi segue. Entriamo in una casa. La donna sulla soglia ha il velo integrale. Victor le accenna chi sono e gli dice che ci fa entrare se racconto in Europa cosa sta succedendo ai poveri siriani. Victor ormai affida allo sguardo l’intesa tra noi, ed eccoci in meno di 10 minuti seduti nell’ambiente più grande della casa, sul tappeto, insieme ai tre piccoli che si muovono con curiosità. La donna è accompagnata da un adolescente in piena fase di trasformazione che si atteggia ad uomo di casa senza esagerare. Dietro all’uscio esterno – che divide una sorta di dependance dalla stanza dove ci troviamo – vedo la sagoma di una ragazza che fa capolino. La convinco ad uscire promettendo di non fare foto. La madre le porta il velo e dopo averlo indossato ci raggiunge. Accetto il caffè turco senza negarmi che potrebbe essermi letale, ma per mostrare che apprezzo l’ospitalità che mi hanno concesso, e che è buona educazione non rifiutare, un po’ come si conviene a Malito, il mio paese calabro.

Fuggire dalla guerra o morire. Il racconto della storia di quella famiglia è il racconto di molti. La possibilità di fuggire in Turchia dopo la perdita di due figli e il genero. La necessità di dare da mangiare ai bambini, e vestirli e provvedere alla loro educazione scolastica, ad ora preclusa assieme alle cure mediche. La voglia di tornare a casa, la consapevolezza di averla perduta. La paura del domani senza il conforto di una reale speranza di pace, intuita dall’acuirsi di una crisi che non sembra a chi l’ha subita risolvibile in termini locali. Sguardi, gesti, odori e parole, parole, parole. Non capisco la lingua eppure mi parlano di un popolo, di un’ideologia manipolata, di una parentesi storica che colgo come anacronistica, di un gioco delle parti dove chi perde è sempre l’umanità. Di un’occasione che mi è data e che non posso ignorare. Dare espressione ai desideri di queste persone il cui unico peccato è essere nati ad una latitudine dove il diritto e la vita sono merce rara.

Missione compiuta. Andando via ci abbracciamo scambiandoci reciproche benedizioni. Poi prego Victor di dire alla signora che sono rimasta colpita dal nome della figlia più piccola, quella che mi aveva portato a casa. La sento chiamare Ade, e non posso fare a meno di collegarla al nome del bimbo di una mia amica che nascerà a febbraio. Io spero di tornare ad abbracciarli prima di allora, dopo aver raccontato la loro storia in Italia a quante più persone possibili. Salutare Victor mi da la misura che la missione è compiuta. Suo padre mi benedice e sostiene che potrò tornare lì tutte le volte che voglio, e che la prossima volta potrò entrare io in Siria senza preoccuparmi, perché il cielo protegge i puri di cuore. Sorrido e lo abbraccio, e lui ha una faccia ch’è misura della tolleranza insita nelle mura di Antakya, e mi sento in armonia col cosmo.

Ritorno alla Guest House. Tutto fa ormai casa. Solo pochi giorni eppure che intensità! La vita qui è più profonda, e le ore sono piene di fretta o di calma, di gioia o di dolore, ma sono piene. Si vede sui visi segnati dalle espressioni, dalla gente che affolla i vicoli, sempre, senza fracasso. Si sente se ci vivi qualche giorno: la forza di gravità sembra meno forte e permette movimenti meno vincolati alla terra. Mentre dialogo con Sister Barbara continuo a ripetere “ridono” e lei sorride rimandandomi la stessa sensazione che mi ronza ancora in testa: non c’entrano i frangenti, ma il modo in cui ci si pone rispetto alle circostanze.  Ho sorriso molto per strada e soprattutto nella parte vecchia di Antakya, non la periferia prossima alla parte nuova dove mi ha portato Marc, ma la parte sud, prossima alla baraccopoli. Nessuno ti nega un sorriso, quindi, non può essere l’inferno.

Verso l’aeroporto. Parto alle cinque per essere all’aeroporto in tempo per il volo delle sette. Fila tutto liscio e non mi si nega neanche l’ultimo, immenso tramonto su un cielo che ha sfumature che meravigliose. Tornerò a breve e spero di riuscire pure a restare. Vorrei che ci fosse dato di collaborare alla ricostruzione di un Paese prossimo. Non ci limitiamo a sostenere la pace in Siria, vogliamo conoscere, vivere e raccontare le vicissitudini di un popolo che abbiamo il dovere di accudire, non solo per vicinanza geografica. Le radici comuni delle nostre civiltà devono essere il l’humus da cui far sorgere un nuovo Umanesimo del Mediterraneo.

Casa. Torno a casa con in cuore la consapevolezza che il primo imprescindibile passo è stato fatto, e non senza ciò che ha caratterizzato tutto il percorso da Perugia ai confini siriani. La fiducia. La nostra fiducia nel Mediterraneo, la vostra fiducia in noi, la fiducia delle persone che ho incontrato ad Antakya verso lo straniero, la fiducia degli attivisti siriani verso l’informazione, la fiducia della mamma di Ade nel futuro, La fiducia del padre di Victor verso l’umanità. La mia fiducia verso la fiducia, paradigma universale di comuni intenti umanamente concepibili come funzionali al bene comune.

 Tutti i diritti sul materiale pubblicato sono di proprietà dell’Ass. Cult. FIDEM  – Festival delle Idee Euro-Mediterraneee

 

 

 

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