Il Vaticanese

Sinodo, Mons. Crociata: i sacerdoti siano testimoni credibili

S.E. Mons. Mariano Crociata
S.E. Mons. Mariano Crociata

L’Anno della fede visto dalla parte dei sacerdoti. In altri termini che cosa significa, «per quanti sono ordinati, riscoprire la fede, risvegliarla e rigenerarla con la Chiesa tutta?». È la domanda che il vescovo Mariano Crociata ha posto ieri ai membri della Commissione presbiterale italiana in uno dei momenti sinodali. Il segretario generale della Cei ha indicato tre prospettive. «Innanzitutto la nostra identità e coscienza ministeriale». Quindi «lo specifico servizio ministeriale nella comunità ecclesiale». E infine «la dimensione pubblica dell’essere credenti e Chiesa nella nostra società».

Una questione di identità. Quanto al primo aspetto, il vescovo ha messo l’accento sulla necessità di «coltivare le radici teologali della propria vocazione e di rinsaldare le fondamenta sacramentali della propria esistenza e del proprio compito ministeriale». Quello che si apre dinanzi a noi – ha ricordato Crociata – è un tempo di grazia innanzitutto per noi stessi. Senza la coscienza di essere innanzitutto chiamati per stare con il Signore, corriamo il rischio di perdere tutto il resto. La nostra è vocazione alla relazione con il Signore in maniera così profonda ed esclusiva da poter diventare punto di riferimento per la fede dei fratelli». Per questo, ha sottolineato il segretario generale della Cei, «dobbiamo chiederci qual è lo stato della nostra fede personale, se e come coltiviamo tempi riservati alla cura della nostra vita interiore, se e in che modo la nostra azione pastorale ne è alimento, se riusciamo a fare di ogni aspetto del nostro servizio una occasione per rinsaldare la nostra comunione con il Signore».

Il sacerdote nella sua comunità. Fare il check up della propria fede servirà poi al sacerdote per svolgere meglio il proprio ministero. E questo è il secondo aspetto. «Quanto più abbiamo cura della nostra fede personale tanto più riusciremo ad accompagnare con una attenzione specifica tutto il nostro agire pastorale verso i fedeli che si rivolgono a noi», dice Crociata. E poi aggiunge: «Dobbiamo imparare ad andare al cuore della cura pastorale chiedendoci se ciò che stiamo facendo o dicendo sta davvero aiutando la fede dei nostri cristiani a crescere e a rafforzarsi. Dobbiamo avere a cuore che i nostri fedeli imparino non solo a fare tante cose nelle parrocchie, ma a cercare il Signore e a incontrarlo personalmente. Accanto alla celebrazione, alla formazione catechistica e all’attività caritativa, c’è bisogno di incoraggiare la preghiera personale e poi anche il discernimento attraverso l’accompagnamento spirituale». Inoltre occorre «coltivare una coscienza credente» che sappia rispondere alle domande del nostro tempo. E qui Crociata cita san Pietro: «Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi». «Oggi – ricorda a tal proposito – non ci è concessa una fede a basso tasso di consapevolezza e di cognizione. Questo è un tempo in cui sopravvivono a fatica credenti che si lasciano trascinare dalla forza inerziale della tradizione sociale». Servono invece «cristiani che con libertà, responsabilità e coraggio assumano la sfida che la fede rappresenta per il mondo di oggi».

La dimensione pubblica della fede. «Dimensione pubblica – rileva il segretario generale della Cei – significa il diritto della professione di fede cristiana di essere compiuta come atto religioso legittimo al cospetto della società tutta». Dunque «la fede chiede non solo di essere proposta al di fuori dei confini della Chiesa, ma di mostrare la sua pertinenza in tutte le dimensioni della vita dell’uomo e della società». Per questo Crociata sottolinea: «Dovremmo chiederci quale coscienza abbiamo di questa possibilità e di questa responsabilità. Soprattutto noi ministri ordinati dovremmo sempre ricordarci che, senza intaccare l’uguaglianza di tutti i credenti nel sacerdozio battesimale, rappresentiamo il volto più facilmente riconoscibile della comunità ecclesiale». I sacerdoti, dunque, siano autentici missionari per far sorgere una fede convinta laddove incontrano «un cristianesimo di tradizione sociale». Senza farsi influenzare dallo stato psicologico del nostro tempo, «più incline alla depressione che all’entusiasmo», occorre evangelizzare. «Al cristiano, infatti, appartiene, più che la depressione o l’entusiasmo momentaneo, il fervore dello spirito e la gioia del cuore. Da questo – conclude il vescovo – si dovrebbe vedere anche la vitalità della nostra fede di ministri che stanno a servizio della fede del popolo di Dio».

Fonte: Avvenire, Mimmo Muolo

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