L’ITALIA non è un Paese per giovani. Lo sappiamo bene, ormai da tempo. Infatti, ogni 100 ragazzi, sotto i 15 anni, ce sono quasi 160, oltre i 65. E nei prossimi 10 anni, secondo l’Istat, sono destinati a crescere in misura esponenziale. Fin quasi a 260. D’altronde, l’età mediana, nel nostro Paese, sfiora i 50 anni. Sono dati ormai noti, anche ai non addetti ai lavori. Basta guardarsi intorno, per accorgersi che i giovani e i giovanissimi sono una razza in via di estinzione.
TABELLE – LE PAROLE DEL FUTURO
Aggiungiamo che i flussi migratori non ci vedono solo come un Paese di destinazione. Ma soprattutto di passaggio, visto che buona parte degli immigrati che giunge in Italia lo fa per andare altrove. In Germania e in Gran Bretagna, anzitutto. Peraltro, anche l’Italia è divenuta Paese di “emigrazione”. Nell’ultimo periodo, infatti, sono espatriati, in media, oltre 100 mila italiani l’anno. Nel 2016: 106 mila. In maggioranza: giovani, fra 18 e 34 anni. Con titolo di studio e livelli professionali elevati. Se ne vanno dall’Italia perché qui non trovano sbocchi occupazionali adeguati.
Ormai, si tratta di una convinzione diffusa e consolidata: circa 6 persone su 10, infatti, pensano, realisticamente, che i figli – a differenza del passato – non riusciranno a riprodurre o, a maggior ragione, a migliorare la posizione sociale dei genitori. Mentre 2 italiani su 3 ritengono che, per fare carriera, i giovani se ne debbano andare altrove. E si comportano di conseguenza. Se ne vanno e non ritornano. Per questo, la rappresentazione del mondo delineata dai giovani appare sempre più ripiegata sul passato. Sempre meno aperta. Il linguaggio riflette e ripropone, in modo marcato, questa visione.
Lo conferma il sondaggio dell’Osservatorio di Demos-Coop, dedicato al Dizionario dei nostri tempi, condotto e presentato nei giorni scorsi su Repubblica.
Le parole dei giovani, infatti, si distinguono e si caratterizzano proprio per questo. Perché richiamano il passato più del futuro. I giovani: guardano indietro. Ancor più dei loro genitori. La parola “Speranza”, nella popolazione, è proiettata nel “futuro”, da quasi due persone su tre. Ma fra i giovanissimi (15-24 anni) la proporzione si riduce sensibilmente: 57%. E fra i giovani-adulti (25-34 anni) crolla al 41%. La nostra gioventù: ha poca speranza. Tanto più nella transizione verso l’età adulta. Più che in avanti, pare scivolare indietro. Verso il passato prossimo. Per questo i giovani non credono molto nella “ripresa”. I giovani-adulti ancor di meno. Più che a “riprendere” pensano a “resistere”. Perché sono disillusi. Secondo loro, il “merito” conta poco, nel lavoro. E, in generale, nella vita. Oggi. E tanto più domani. Per questo di fronte all’Italia appaiono disillusi. Anche se non delusi.
Il Presidente degli USA, discusso per lo stile e i contenuti del suo messaggio, prima ancora che per le sue scelte politiche. Ebbene, secondo un quarto degli italiani, Trump è destinato ad avere più importanza. Domani. Nel futuro. Ma fra i giovani e ancor più fra i giovanissimi questa misura cresce ancora. Di più. Fino al 36%. Questi giovani: sembrano in difficoltà a orientarsi. A spingersi, a proiettarsi e a progettarsi. In avanti. A uno sguardo d’insieme, magari affrettato: evocano l’idea di una generazione che ha perduto la speranza. E non riesce a trovare buone ragioni per
credere nel futuro. Questa generazione. Evoca un’ombra che incombe su tutta la nostra società. Perché i giovani sono il nostro futuro. E se i giovani perdono la speranza come possiamo sperare nel futuro della nostra società? Come possiamo sperare nel futuro?
Fonte Repubblica di ILVO DIAMANTI