Il Vaticanese

Mons. Rega: la Campania terra fertile di vocazioni sacerdotali

Mons. Stefano Rega Direttode del Seminario di Aversa
Mons. Stefano Rega Rettore del Seminario di Aversa

Pubblichiamo uno studio sulle vocazioni sacerdotali della Campania di mons. Stefano Rega, Rettore del Seminario Vescovile di Aversa, che accogliamo con gioia nelle pagine de Il Vaticanese, proprio anche per dare il benvenuto alla realtà seminariale ed ai giovani che guida e che oggi rappresenta un modello di formazione, di educazione alla vita come realizzazione di una pura e semplice vocazione, in questo caso, a Dio.

“La Campania – scrive mons. Rega partendo dalla descrizione dei territori – offre un quadro multiforme e variegato: dalla costa splendida ed affollatissima, la famosa Campania felix, all’entroterra collinare più povero e culturalmente distante per tradizione e costumi dai capoluoghi di provincia. Tutta la regione presenta diversi volti sociali, con problemi inerenti alla sua storia, tanto che non appaiono similitudini tra una Diocesi e l’altra, né per vastità di superficie nè per densità di popolazione; qui la Chiesa non resta una realtà al di fuori del tempo e dello spazio, ma è parte integrante della vita dei fedeli, in taluni casi assume un valore di supplenza alla mancanza dello Stato, preoccupandosi delle povertà della gente, sostenendo le battaglie di civiltà e di libertà specialmente in quei territori abbandonati e retrivi per le ben note questioni sociali. Si può affermare, senza tema di essere smentiti, che  la questione meridionale non è mai stata superata e che le ancestrali sottomissioni ai poteri forti dei governi locali continuano a  condizionare il vivere civico e la condivisione dei diritti elementari, per cui il cittadino onesto viene messo nella difficoltà di esercitare il proprio ruolo di soggetto della cittadinanza attiva. Ne deriva che il sacerdote della nostra regione, con la sua cultura, la sua spiritualità, la sua pastoralità, vada necessariamente inquadrato in questa cornice. Egli è voce della sua gente, espressione di una società che in lui trova sostegno, riferimento ed aiuto concreto; se è parroco di una comunità, diventa amico, padre e fratello non solo del cammino spirituale, ma anche della crescita sociale e culturale dei suoi fedeli. Qui, nelle terre campane, il sacerdote ha un suo ruolo ben configurato e, benché raramente usi l’abito talare, resta ben riconoscibile nella figura del suo ministero. Del resto, recentemente molte storie cinematografiche e teatrali hanno rivalutato la figura del prete: i Don Matteo piacciono agli spettatori televisivi che si sono affezionati al personaggio tanto da identificarlo nella quotidianità; sono soggetti di sceneggiati di successo le vite di San Filippo Neri e di Don Giovanni Bosco, esempi della grande carità e della dedizione alla missione di recupero di giovani poveri ed emarginati. Viene così  genericamente interpretato il bisogno della gente di considerare il sacerdote guida forte e sicura, interprete delle richieste umane ed affettive da incanalare nella giusta dimensione dei valori etici e morali della nostra religione”.

Mons. Stefano Rega: premiato come miglior cappellano serrano biennio 2010-2012 – nella foto con Viviana Normando Direttore de Il Vaticanese e la Prof.ssa Maria Luisa Coppola già Vice Presidente Cnis ai programmi

Prosegue il Rettore del Seminario di Aversa in una disamina, più che mai attuale e comune a tutti, dei punti del suo studio sulle vocazioni campane.

Profilo dei candidati Campani al Presbiterato

Pertanto, se nei secoli precedenti al sacerdote veniva richiesta solo una superficiale formazione presbiterale e la presenza nel confessionale, oggi tante altre attitudini devono essere presenti nel suo bagaglio umano e culturale. La società in continua evoluzione richiede che sia al passo con i tempi, che sia un comunicatore efficace delle eterne verità, versatile e cordiale, attento nei rapporti umani, franco e disponibile al dialogo, ma fermo e convinto del suo ministero sacerdotale. L’alter Christus è di per sé esempio di bontà e di semplicità: in questa epoca smarrita nella mancanza di valori certi, in cui l’indifferenza è causa peggiore dell’ateismo, la religione un fatto privato, la famiglia completamente in crisi, la figura sacerdotale invece resta ben stagliata nella coscienza individuale, sicuro riferimento sociale tanto che, in alcuni casi, la sua presenza può risultare ingombrante se non fastidiosa. Nelle Diocesi di Napoli, di Caserta, di Aversa i problemi ambientali sono di enorme gravità: le discariche di rifiuti tossici a cielo scoperto hanno inquinato le falde acquifere, producendo un aumento esponenziale  di tumori e di malattie gravissime;  la malavita organizzata  attanaglia il commercio ed ogni attività produttiva, molti  giovani sono disoccupati o lavorano in nero, nelle strade ogni sorta di illegalità…. Il parroco non può prescindere dall’analisi di questa cruda realtà nell’esercizio del suo ministero, tanto che molto spesso il suo ruolo viene aggettivato a seconda delle necessità cui cerca di trovare risposta. Così il prete-anticamorra, il prete-ambientalista, il prete-organizzatore di eventi etc…, come a dire che occorre una specializzazione per vivere il sacerdozio ministeriale nella sua dimensione contestuale. La semplificazione è fin troppo chiara ed esplicativa della rinnovata stima nei confronti del presbitero, sempre più aderente al contesto sociale ed alla quotidianità della vita. Sono oltremodo noti i caratteri distintivi di don Mazzi o di don Ciotti e del loro operato a favore del recupero dei tossicodipendenti e della legalità, come nella Diocesi di Aversa il sacrificio di don Peppe Diana, barbaramente ucciso in chiesa da camorristi spietati. Ma il volto del prete visto dalla gente corrisponde al volto del prete nell’interno del clero? Come vive il suo ministero, nell’ambito della parrocchia o negli incarichi curiali? Se il contesto sociale condiziona pesantemente il ministero sacerdotale, è pur vero che ognuno vi risponde alla luce delle sue peculiari attitudini o, per meglio dire, della sua particolare sensibilità. Molti vivono la loro condizione con sofferenza, con intima insoddisfazione: le ragioni del disagio sono ascrivibili ad una diffusa pratica autarchica, ovvero ciascuno vive la propria esperienza sacerdotale senza la comprensione, la collaborazione dei confratelli, come se riguardasse a ciascuno il proprio “orticello”, responsabile di una parte e non del tutto, circoscrivendo il luogo di comunione al territorio o all’incarico affidatogli. Avviene così, per esempio, nella pastorale vocazionale a cui difficilmente prestano attenzione i parroci, credendo erroneamente che riguardi esclusivamente il Rettore del Seminario e il direttore del CDV: ai ripetuti inviti dei Vescovi ad interagire poiché la pastorale vocazionale è la pastorale delle pastorali, che la prima vocazione si avverte in famiglia ed in parrocchia, la maggioranza dei parroci non risponde e, se avviene, è solo per obbedienza al Vescovo, non per intima condivisione. Il senso di solitudine aumenta progressivamente quando si accerta che “stare in comunione”, “fare Chiesa” sono buoni propositi e restano tali..quando si dà testimonianza di divisione, di scollamento su ogni questione, quando anche viene meno l’indirizzo sinodale sui temi della liturgia, sull’amministrazione dei sacramenti, sui percorsi spirituali destinati ai giovani o agli adolescenti.

“L’isolamento del prete è all’origine di tutte le devianze! Allora, c’è un’“emergenza di fraternità”: non c’è crisi che non nasca dall’essersi tirati fuori dal Presbiterio, dalla fraternità e, allora, se c’è un’“emergenza fraternità”, i preti della Campania, nel riscoprirsi chiamati, nel riscoprirsi strumenti di salvezza per gli altri, devono riaffacciarsi, e questo a vario titolo. Certamente, c’è il Presbiterio nella sua interezza, ma poi ci sono altre forme che ciascuna Diocesi ha messo a punto, dove è impossibile non incontrarsi: non ci possiamo ignorare da vicini di casa.  Una parola va detta anche sulla Facoltà. C’è una frattura tra la Facoltà Teologica e la prassi pastorale, tra il tempo della formazione e quello del Ministero, tra la riflessione teologica e la spiritualità (i santi sembrano non avere cittadinanza in Teologia), tra teoria e prassi. Giovanni Paolo II è morto all’atto in cui non ha potuto ricaricarsi nel contatto con le folle: è ancora pensabile che il campo pastorale sia solo il luogo in cui ci svuotiamo? Mi sono sempre chiesto: ma quel Papa come faceva a mantenere un ritmo così stressante? La risposta è che la carità pastorale, di cui parla abbondantemente in Pastores, non l’ha solo teorizzata: l’ha vissuta. Tant’è vero – l’abbiamo visto anche nelle visite alle nostre Chiese in regione – che, arrivato stanco, ripartiva ringiovanito. Ecco, questo deve accadere. Purtroppo c’è un cortocircuito nella nostra attività pastorale, cioè noi ci stanchiamo soltanto. Allora, se voi e noi, all’atto in cui parliamo, predichiamo, catechizziamo, organizziamo, celebriamo, abbiamo bisogno, dopo, solo di riposarci, c’è qualcosa che non va in quello che noi facciamo, perché il campo pastorale è anche un luogo di apprendimento, è il luogo della santificazione dei presbìteri: inutilmente noi cercheremo il Risorto nella tomba vuota (pastorale statica), perché Lui ci precede in Galilea (pastorale dinamica)” (Mons. A. Aiello, Pompei 11 maggio 2010).

 

Tratti caratterizzanti dei Presbiteri Campani oggi

Parlando ai seminaristi di Umbria, Calabria e Campania, Papa Benedetto XVI ha ricordato che cosa debba essere il futuro sacerdote e che cosa si chiede da lui. Il Pontefice ha riconosciuto che le condizioni in due regioni come Calabria e Campania non sono per nulla favorevoli. “In Campania e Calabria, la vitalità della Chiesa locale deve tradursi in una rinnovata evangelizzazione”. Infatti, secondo il Papa, in quelle due regioni meridionali si deve fare i conti con una emergenza sociale e culturale, “con la mancanza di lavoro o il fenomeno della criminalità organizzata”. Il Papa ha delineato dunque chi e come debbano essere i sacerdoti: “uomini di Dio”, che con Dio abbiano “un rapporto personale”. I sacerdoti, prima ancora che colti e raffinati intellettuali, siano “santi ed educatori, testimoni credibili e promotori di santità con la loro stessa vita”. (Roma 26 gennaio 2012)

L’apprensione crescente del S. Padre sulla necessità di una formazione permanente del presbitero è motivata proprio dalla necessità di adeguare ai tempi mutati rapidamente i linguaggi della comunicazione, a prendere atto dei costumi familiari sostituiti da modelli contemporanei non sempre cristiani, dalla moltitudine di problemi sociali, economici e lavorativi che generano malessere, depressione ed abulia religiosa nella gente così disorientata e confusa. Il sacerdote conosce il Vangelo, ma è sempre in grado di saperlo raccontare? La resistenza all’aggiornamento, a rivedere in comunione di intenti la propria missione al servizio è un atteggiamento comune in ogni realtà diocesana, dove oramai in forma globalizzata e modesta i giovani preti si sentono arrivati e gli anziani sfiduciati e, nell’un caso e nell’altro, vivono la difficoltà di coniugare le due anime della spiritualità e della pastoralità. E’ un dato evidente che sono difformi  le forme di evangelizzazione: dalla contemplazione al dinamismo, dalla denuncia al rigidismo concettuale, dalla fuga dalle responsabilità al coinvolgimento troppo personale nelle vicende umane dei fedeli. S. Ecc. Mons. Felice Cece, ora Vescovo emerito di Sorrento-Castellammare, definì il clero con un’espressione lapidaria:”Ottimi padri, figli mediocri, pessimi fratelli”, volendo esplicitare la difficoltà di vivere in comunione, di sentire la fatica del ministero, di non attenersi alle disposizioni del Pastore in obbedienza e fedeltà. Il suo pensiero è ancora sovrapponibile alla situazione odierna, anzi ancor più si registra una diffusa tendenza al sentirsi monade nell’esercizio del proprio ministero, poco solidali nei confronti dei confratelli, che spesso vengono etichettati con durezza o con diffidenza. Il sacerdote assume un carattere manageriale che non si addice alla sua scelta di vita, non può prevalere l’economia sulla spiritualità, l’agire sul sentire, al contrario tutti hanno bisogno di sentirsi conquistati, affascinati dal racconto mistero della suprema  volontà di un Dio misericordioso che tende una mano al peccatore, comprendendone le sue fragilità e concedendogli il perdono se ardentemente richiesto nel cammino di conversione.

“In medio stat virtus” è il dilemma quotidiano dei ministri di Dio, alcuni eccessivamente distanti dai problemi della comunità, altri troppo “laicizzati” agli occhi del popolo di Dio che continua a non veder di buon occhio la sovraesposizione mediatica di quanti praticano i salotti televisivi o i social network ed auspica sempre più che il sacerdote sia modello di virtù cristiane.

A fronte di questi tratti caratterizzanti il presbitero in Campania, si auspica, a partire dalle indicazioni dei Vescovi italiani (La formazione dei presbiteri nella Chiesa Italiana, novembre 2006) che i nostri presbiteri abbiano queste attenzioni: la passione per Cristo Pastore, nella cui persona il presbitero agisce e a cui primariamente dirige la sua capacità di amare; la dedizione alla Chiesa, a partire dal suo volto concreto e diocesano, nella coltivazione di rapporti oblativi, paterni e cordiali con i laici, fraterni e disponibili nel presbiterio, filiali e collaborativi con il Vescovo; la dimensione missionaria del triplice ministero di annuncio, celebrazione e guida pastorale, a partire dalla prossimità alle persone nella propria Chiesa particolare, fino ad arrivare alla disponibilità all’annuncio ad gentes; un’integrazione profonda tra la vita interiore e l’apostolato, capace di dare pienezza anche affettiva alla vita e al ministero presbiterale; una radicalità evangelica che, senza l’illusione di poter evitare fatiche e incomprensioni, sperimenti la verità della promessa di gioia riservata da Gesù a chi ne condivide il cammino e testimoni la possibilità di realizzarsi donandosi completamente alla Chiesa in nome di Cristo obbediente, povero e casto. In questa prospettiva vanno valorizzati e favoriti alcuni elementi già presenti nella vita del presbitero delle nostre Chiese: la caratteristica popolare del prete-parroco vicino alle famiglie, ai poveri e ai malati; la passione educativa verso il mondo giovanile; l’attenzione verso quella che oggi viene definita “pastorale integrata”; la sensibilità verso i problemi sociali; l’interesse per la prospettiva culturale configurata nel “progetto culturale” della Chiesa italiana; la valorizzazione della comunicazione interpersonale e sociale; la realizzazione di forme diverse di fraternità presbiterale.

Ci sembrano queste le caratteristiche irrinunciabili del presbitero di cui ha bisogno la Chiesa. Un presbitero che sia anzitutto un profeta, che sappia denunciare le ingiustizie e annunciare la speranza. Siamo consapevoli che si tratta di una figura esigente e in contrasto con una mentalità diffusa che, talvolta, anche nelle comunità cristiane, si accontenta del minimo indispensabile. Siamo tuttavia convinti che abbassare il livello ideale, se anche può momentaneamente risolvere alcuni problemi immediati, non costituisce un buon servizio alle nostre Chiese e alle esigenze dell’evangelizzazione.

 

Figure e modelli di Presbiteri Campani

Il Cardinale Angelo Amato, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, nell’omelia per la solenne celebrazione della beatificazione di don Giustino Russolillo, così si esprimeva: “Come la vostra terra fertile produce fiori e frutti abbondanti in ogni stagione, così in ogni secolo la Campania, la vostra regione, ha donato alla Chiesa frutti maturi di santità. Disse un giorno il cardinale Ursi: “La Campania è terra di santi”. Tra quelli più recenti ricordiamo S. Giuseppe Moscati, S. Caterina Volpicelli, S. Giulia Salzano, S. Gaetano Errico, il beato Ludovico da Casoria, il beato Bartolo Longo, la beata Teresa Manganiello” (Pianura, 7 maggio 2011).

Nella nostra regione dunque non mancano gli esempi di santa vocazione, come quella del  Beato Vincenzo Romano, che forse pochi conoscono. Ciò che colpisce nell’infaticabile parroco torrese è l’apertura ai problemi umani e materiali della gente, di cui ha condiviso gioie, dolori e speranze. Al di là della carità spicciola, infatti, Vincenzo Romano ha dimostrato di essere un apostolo della carità sociale.

Egli si dedicò all’educazione dei fanciulli e dei giovani nella sua casa, dove gratuitamente tenne lezioni per i vari ordini di scuola. Si impegnò per la giusta composizione delle questioni economiche e sociali esistenti tra gli armatori delle coralline ed i marinai che affrontavano la fatica e i rischi della pesca, nonché tra i “cambisti” e gli armatori. Si interessò per riscattare i torresi caduti in schiavitù dei corsari barbareschi. Girò con infaticabile zelo, per “sorprendere i delinquenti”, per distruggere addirittura i luoghi in cui la delinquenza comune ed organizzata poteva attecchire per raduni e loschi affari.

Non abbandonò mai il gregge durante gli scompigli politici, né durante le eruzioni del Vesuvio o le azioni carbonare. In questo senso egli è stato un uomo sempre sulla strada delle persone da salvare, che incontrava dovunque, sulle pubbliche piazze, per le strade, le vaste campagne, la Marina, le case.

Così Vincenzo Romano è divenuto Santo, facendo il pastore della Parrocchia di S. Croce per 35 anni e “struggendosi”, come egli diceva, per il popolo a lui affidato. E se i suoi contemporanei lo chiamavano già “il santo”, ciò avveniva non solo per la sua eccelsa dottrina, e neppure per i fatti straordinari o miracolosi a lui ascritti, bensì perché egli era, per essi, un segno di salvezza, era l’amore di Dio e dei fratelli che si manifestava come costante della sua vita e della sua azione.

Per questa sua amorosa sollecitudine, egli deve considerarsi anche modello di carità pastorale per i sacerdoti, in modo particolare per tutti i parroci desiderosi di vivere il loro ministero nell’ascolto della Parola che salva, nella fede dell’Eucaristia che santifica, nella sensibilità dell’amore che libera.

Certamente pochissimi sanno della nobile figura sacerdotale del  Beato Mariano Arciero di Contursi Terme, che visse in tempi difficilissimi la propria vocazione sacerdotale in spirito di carità verso gli ultimi della Terra, invocando nella sua umile preghiera la “Mamma bella”.

Don Mariano Arciero ha compiuto una vera e propria evangelizzazione, a Napoli, nella Chiesa di S. Gennaro all’Olmo e S. Maria in Porto Salvo. Nella prima vi predicò per 33 anni. Non accettò nessun compenso. Le sue prediche duravano sino a due ore: non solo il popolo non si stancava, ma erano ascoltate anche dai sacerdoti e dallo stesso Arcivescovo di Napoli. Quando veniva richiesto da alcuni Sacerdoti di volere qualche predica scritta, D. Mariano rispondeva che “quello che diceva in Parrocchia era opera di Dio”. “Badate – diceva agli uditori – approfittatene delle mie parole poiché sebbene la tromba è di creta, è lo Spirito Santo che vi soffia”. Nella seconda Chiesa fu invitato a tenervi un quaresimale, poi vi predicò tutti i giorni festivi. Destava meraviglia che ormai vecchio e sofferente, resisteva tanto a predicare. Spesso doveva montare sul pulpito sorretto quasi di peso”. Questa ultima immagine rievoca la santità e ci ricorda gli ultimi anni di vita di S.S. Giovanni Paolo II.

L’impegno civile e religioso di Don Giuseppe Diana contro la camorra ha lasciato un profondo segno nella società campana. Fu ucciso nella sua parrocchia da sicari probabilmente appartenenti al clan dei casalesi. Il suo scritto più noto è la lettera “Per amore del mio popolo non tacerò”, un documento diffuso a natale del 1991 in tutte le chiese di Casal di Principe e della zona aversana insieme con i  parroci della foranìa di Casal di Principe, un manifesto dell’impegno contro il sistema criminale. Il 19 marzo, giorno del suo onomastico, veniva ucciso dalla camorra nel corridoio che dalla sacrestia porta alla chiesa, mentre stava per iniziare la celebrazione della S. Messa.

Sono presenti e vive le figura di don Puglisi, di Oscar Romero,uccisi per aver voluto compiere fino in fondo la loro missione, contrastando con la logica dell’amore e della ragione, la violenza di chi impone un modo di vita che imbarbarisce la società umana.

Don Peppe era nato il 4 Luglio 1958 a Casal di Principe, in provincia di Caserta, nell’agro-aversano; nel Marzo 1982 è stato ordinato sacerdote. Don Peppino divenne giovanissimo (nel Settembre 1989) parroco della parrocchia di san Nicola di Bari a Casal di Principe.

Era uno scout, prima capo reparto dell’Aversa 1, poi assistente del gruppo, impegnato in zona e in regione, assistente nazionale dei Foulards Blancs, assistente generale dell’Opera pellegrinaggi Foulards Blancs. Essere prete e scout significavano per lui la perfetta fusione di ideali e di servizio.
“Ricordo il fiume di scout che avevano dimesso la loro aria scanzonata da bravi figli di famiglia e sembravano portare annodata ai loro bizzarri foulard gialli e verdi una rabbia forte, perché don Peppino era uno di loro…

Con questo spirito di servizio aveva intrapreso la lotta alla camorra che infesta la sua zona. Con lo scritto e la parola si era posto a capo della comunità parrocchiale e cittadina per il loro riscatto.

Di buoni esempi di santità la nostra Regione Campania è ricca, vi sovrabbonda la Grazia di numerosi sacerdoti dediti totalmente alla causa di Dio, che sono senz’altro da ricordare e riproporre in forme ed in linguaggi attuali e convincenti, per riscaldare il cuore degli indifferenti e calare nella quotidianità dei gesti e dei comportamenti il concetto che tutti siamo chiamati alla santità, all’obbedienza delle regole, con la semplicità dei nostri Padri, alla cui sequela ciascuno di noi si è formato.

Il Cardinale Sepe nell´incontro “Essere preti oggi in Campania, un ministero di speranza per la nostra terra (Pompei, 11 maggio 2010)” ci ha invitato « a vivere la nostra spiritualità di sacerdoti in Campania affrontando le sfide che arrivano dal territorio. Bisogna essere vicini alla nostra gente in questo particolare momento di crisi morale, economica e sociale. Dobbiamo tornare in strada per condividere le sofferenze e le angosce di tanti fratelli e sorelle ma anche per dare una speranza soprattutto ai poveri e a quanti soffrono nel corpo e nello spirito». «Vogliamo continuare ad accompagnare il nostro popolo – ha concluso Sepe – riferendoci, come ci ha indicato il Papa, alle luminose figure dei Santi sacerdoti che ci hanno preceduto. Seguiamo il loro esempio e ritorniamo in strada».

Nelle nostre terre fertili, per natura e per ingegno umano, occorre riportare la speranza dell’ottimismo: fa bene ascoltare la Parola di Dio pronunciata con il sorriso, con la dolcezza di un’espressione garbata, come oramai accade sempre meno in ambiti lavorativi e familiari, perché la gente corra in Chiesa con il desiderio di sentirsi amata, considerata ed elevata in “più spirabil aere”, dove le tensioni che riguardano l’oggi siano dimenticate nell’aspettativa di “nuove terre e nuovi cieli”, per restituire all’animo umano travagliato dalle miserie il sogno di Dio che ci rende liberi, aperti al dialogo, preziosi ai Suoi occhi, come fulgidi diamanti.

 

Il Sacerdote è l’uomo della sintesi mirabile e cosmica dell’Amore

È infatti l’Amore radicale di Dio per l’uomo

e l’amore radicale dell’uomo per Dio

è il testimone delle nozze,

anzi è segno delle nozze stesse

e come lo Spirito Santo è l’Amore sponsale del Padre e del Figlio fatto persona

così il Sacerdote è segno dell’amore di Dio per l’uomo e dell’uomo per Dio fatto persona

è dunque profezia e speranza che l’amore

è più forte della morte

e che essa, la morte,

non è l’ultima parola dell’esistenza

ma semplicemente la dolorosa

e gioiosa porta che schiude

la pienezza del talamo di Dio e dell’uomo…

“Dacci Signore santi sacerdoti…”.

 

Mons. Stefano Rega

Rettore del Seminario Vescovile di Aversa

Foto Cortesia Fabio Pignata

 

 

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