La festa del Natale, che ancor oggi riunisce festosamente le famiglie, comporta per chi è solo, una maggiore sofferenza, perché in tale occasione la solitudine è più sentita, divenendo non solo del tutto inaccettabile e schiacciante, ma così insopportabile da convincere, chi la prova, dell’inutilità della propria vita, sino al rifiuto di se stessi.
Essa si aggrava ulteriormente se la causa della solitudine, poi, non è dipesa da una scelta di sopravvivenza, ma è frutto di abbandono da parte dei parenti, perché legata a ricordi, se non felici, quanto meno di vicinanza e di solidarietà, per cui non trovare più ascolto, affetto, comprensione, uccide l’anima più della morte.
La solitudine è, dunque, una forma di povertà, forse la più terribile e traspare apertamente, tanto che la si legge anche passando per strada, negli occhi dell’extra comunitario che ci chiede una moneta, nel barbone che si trascina col suo pacco di stracci, nel vecchio traballante che regge una misera busta con una singola porzione di cibo acquistata, ma anche nel ricco, rimasto solo per superbia o egoismo tristemente fermo in un auto di lusso o dietro i vetri di una sontuosa casa, ad attendere chi non verrà.
Guardando, invece, la mangiatoia del presepio, su cui è poggiato il bambino Gesù, ci accorgiamo come la capanna sia circondata dai pastori ed in essa non esista solitudine, ma solidarietà, amore, comprensione, disponibilità e se non siamo ottusi, ne comprendiamo il primo grande messaggio che il Figlio di Dio apporta all’umanità, scoprendo come non si debba mai dimenticare la sofferenza del prossimo se vogliamo chiamarci ancora uomini.
Auguri.