R. – E’ come se la crisi economica avesse un indicatore di sofferenza, che sono proprio i bambini. Siamo partiti da un’analisi del bambino appena nato – a livello dei dati di neonatologia – quindi, bambini nati prematuri, a basso peso, bambini che hanno necessità di cure molteplici e quello che si scopre è che le persone che hanno disagi o malattie evidenti, sono quelle che vivono una situazione di maggiore crisi; con riferimento, per esempio, a persone immigrate – in particolare quelle che vengono dall’Africa subsahariana e dall’Europa dell’Est – con riferimento anche alle italiane in cui la madre riconosce da sola il bambino, quindi le famiglie “mono-parentali”.
D. – Quindi, la crisi impatta sull’infanzia, le condizioni di vita dei piccoli peggiorano. Di quali problematiche legate alla salute parliamo?
R. – Da una parte abbiamo visto quelle legate proprio al momento della nascita: patologie respiratorie e dal punto di vista neurolettico, poi anche disagi psicologici, malnutrizione. Il ragionamento che stiamo facendo però non è tanto nell’immediato – fortunatamente sono numeri piccoli, perché comunque l’Italia ha un sistema abbastanza buono di sorveglianza – quanto in termini di prospettive: questi bambini che nascono con questo handicap iniziale, in situazioni di disagio diffuso, che prospettive hanno di crescere bene e soprattutto di avere le stesse opportunità di tutti gli altri? … Si è parlato molto di disuguaglianze in questo convegno: il vero impegno nei momenti di crisi è fare in modo che le disuguaglianze si riducano. Le disuguaglianze sono quelle differenze evitabili, non necessarie, che producono appunto malattie, ma che possono essere evitate con delle attente politiche sociali e sanitarie.
D. – Quindi, cercare di insistere sulla prevenzione, chiedere politiche sociali adeguate anche per abbattere i muri della disuguaglianza. Parlando però del bambino immigrato, in particolare, quali criticità si aprono?
R. – Lì entra in gioco un altro capitolo molto delicato: questi bambini, che poi fanno un percorso di crescita, in realtà non vengono accolti dalla società, in particolare i bambini figli di immigrati continuano ad essere considerati immigrati pur non essendo mai stati fuori dall’Italia – pur parlando solamente la lingua italiana, o magari il dialetto della regione dove si trovano – questi bambini continuano ad essere considerati un “corpo estraneo”. È stato indicato da mons. Feroci, direttore della Caritas – che ha partecipato a questo convegno – l’importanza di un’assoluta urgenza di modificare la legge della cittadinanza e far sì che questi bambini si sentano effettivamente quelli che sono, cioè dei “nuovi italiani”.
D. – Cosa si può fare, cosa si deve fare e cosa sta facendo in particolare la Caritas, se ci sono programmi specifici per esempio di prevenzione, di cura o sostegno?…
R. – La Caritas continua il proprio intervento di “prossimità” e di scelta di campo, che è l’intervento diretto. In generale, il grande problema è più sul piano culturale: riscoprire quel ruolo – che è proprio anche della Caritas – ovvero quello della pedagogia; fare in modo che tutta la società capisca che questi bambini sono il nostro futuro e la nostra speranza. Se noi non interveniamo già adesso, subito dalla nascita, della crescita – con leggi sulla cittadinanza, con leggi di accoglienza degli immigrati, leggi che possono favorire le mamme italiane e straniere – noi ci stiamo veramente precludendo un futuro. Quindi, un intervento è un intervento nello specifico, nell’aiutare le persone che soffrono, ma nello stesso tempo è un intervento nelle politiche e nella cultura.
D. – In uno degli interventi dei relatori in questo convegno si è parlato di “neonato a rischio sociale”. Vogliamo spiegare in che senso?
R. – I problemi che vive il bambino nella primissima infanzia, anche come privazione economica – parliamo di cose essenziali e non di cose di lusso – si ripercuote sicuramente sulla possibilità futura che questo bambino possa essere una persona – uomo o donna – integrata ed inserita nella società e che possa essere anche un elemento produttivo non solo in termini economici, ma anche a livello culturale della società stessa.
Fonte Radio Vaticana