Camilian Demetrescu: il perché delle radici cristiane dell’Europa

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Se dovessi raffigurare l’Europa cristiana di oggi in un disegno – racconta Camilian Demetrescu, pittore, scultore e incisore – farei un tronco d’albero gigante, con profonde radici nella terra, ma reciso seccamente al suolo, impietrito in una desolata cicatrice piatta e grigia, dalla quale spuntano ancora, miracolosamente, alberelli in fiore.

Abbiamo faticato per secoli a tagliare quel maestoso albero. La scure della nostra civiltà si è abbattuta contro la quercia della Grande Tradizione, ma la linfa vitale continua a salire, le nuove generazioni stanno riscoprendo le sue radici. Questi giovani sono una minoranza, è vero, ma come c’insegna il passato, la storia la fanno le minoranze. Le maggioranze la subiscono, trascinate dagli eventi. E mentre la grande Europa, sorda ai colpi della scure che continua a colpire, dorme sognando il paradiso della felicità del benessere e del superfluo, quell’altra piccola Europa, colpita dall’insonnia della coscienza, veglia. Allarmati dal vigore con cui i giovani germogli fioriscono dal tronco amputato della grande Tradizione, i boscaioli di Bruxelles sono pronti a tagliarli con la scure della nuova costituzione europea che nega le radici cristiane dell’Europa. Ma, per il momento, al rifiuto di alcuni stati di convalidare la costituzione, hanno dovuto appendere la scure al chiodo.

Eppure, grazie alla divina semplicità del Cristianesimo, l’unità spirituale dell’Europa, dei suoi popoli, non si è mai infranta nel suo profondo, nonostante le complicazioni teologali, che non una volta hanno incatenato la fede con dogmi pretestuosi, estranei all’unicità primordiale del Verbo.

Ricordo una parabola medievale, semplice, popolare: la leggenda dei pesciolini della Senna. Il fiume attraversa la città di Parigi da est a ovest. Nelle sue acque vivono due specie di pesci: i pesciolini magri che si danno un gran daffare nuotando controcorrente, verso la luce del sol levante, verso la sorgente, e i pesci grassi, sonnolenti, che si lasciano portare dal fiume verso le tenebre del  ponente. Mi rivolgo a coloro che sono consapevoli della deriva del mondo di oggi. Se sentite i colpi della scure che si abbatte senza sosta sul tronco del Grande Albero, neanche voi potete fare a meno di nuotare controcorrente con tutte le vostre forze, verso la sorgente della Verità.

Le cause della deriva morale e spirituale dell’Europa sono ben conosciute, ma non da tutti.  C’è chi le conosce, guardando intorno, c’è chi non le conosce – per incultura, disinteresse o malafede – c’è chi non le vuol conoscere, prigioniero del mito del progresso senza limiti.

La prima causa della deriva è la risposta stessa che la nostra civiltà ha saputo dare fini ad oggi alla proposta cristiana. Con il libero arbitrio, il più alto concetto religioso della dignità umana, è stata data all’uomo la libertà di scegliere. Ma dopo secoli di tormento e di conquiste del razionalismo, l’Europa ha detto no a Cristo. Le prove sono evidenti. Confermate da Giovanni Paolo II quando parlava del bisogno di ricristianizzare il nostro continente.

Sarebbero tante le prove di questo lungo e progressivo allontanamento dall’insegnamento evangelico originale: dalle prime eresie, dalle prime guerre di religione, dalle vecchie e nuove inquisizioni, dalle prime utopie rinascimentali, dalle riforme alle controriforme, dall’illuminismo e il giacobinismo,  dal trionfo della Dea Ragione e del dubbio, dal proclama dei nuovi filosofi della morte di Dio alle utopie dei sistemi totalitari dell’ottocento e del novecento, concepite per abolire il male e l’ingiustizia con la violenza stessa, fondate sull’odio di classe e sull’odio razzista, dall’invasione del nichilismo e dell’anarchia, fino al relativismo assoluto che ha frantumato la coscienza dell’uomo.  Sono soltanto alcune tappe di questo fatale rifiuto che ci ha portato nella condizione in cui ci troviamo oggi.

Da questo elenco telegrafico potrei scegliere un esempio apparentemente marginale ma significativo: il cambiamento della struttura urbanistica delle grandi città europee in questo ultimo millennio, seguendo passo per passo l’evoluzione della cultura e della politica sul nostro continente.

Se nel medio evo la Cattedrale – la cattedra del vescovo pastore spirituale – era il centro stesso della città e della vita sociale, nel rinascimento la Cattedrale sarà sostituita dal Palazzo del Principe, diventato il centro del potere e della sua corte. A sua volta, nei secoli successivi, più vicini  al nostro tempo, la dimora del Principe fu rimpiazzata dal Palazzo della Borsa, la nuova cattedrale che celebra l’onnipotenza terrena dell’oro.

Con l’emancipazione illuministica e giacobina, all’inizio dell’era industriale, la città gravita invece attorno alla Fabbrica, il nuovo santuario delle utopie scientifiche del materialismo storico dell’ottocento. E infine, nei tempi moderni, avviene la dissoluzione stessa del Centro della città che gravita attorno ai cosiddetti centri storici, assumendo il significato archeologico, turistico e commerciale della metropoli di oggi.

Contemporaneamente assistiamo alla deriva dell’architettura e dell’iconografia della cattedrale stessa, nonché della semplice chiesa parrocchiale, diventate irriconoscibili rispetto agli archetipi del tempio originario. La graduale dissacrazione dell’edificio e dell’arte sacra ha cambiato radicalmente il rapporto tra chiesa e società. Alla solarità del romanico seguiva l’arte crepuscolare del gotico, per ritornare poi col rinascimento al paganesimo, arrivare nel barocco ad una esasperazione della forma che prevale sui contenuti, e, finalmente, sfociare nei tempi moderni nell’anti-arte, espressione del nichilismo e dell’ateismo imperante.

Lo svuotamento di significato simbolico dell’edificio sacro è parallelo allo svuotamento dei valori fondamentali della società. Dalla maestà della cattedrale medievale fino al freddo motel ecclesiastico a cinque stelle, di oggi, firmato da prestigiosi nomi dell’avanguardia che conta, e fino allo squallido garage per le anime – come le definisce Sedlmayr – delle parrocchie povere, la deriva sembra averci portato sull’altra sponda dell’oceano della storia. Potrei dare altri esempi, riguardanti il mutamento nelle arti figurative, dove la deriva assume contrasti ancora più devastanti, oppure nella scienza – naufragata nel puro scientismo senza etica – e ancora, nel comportamento umano scaraventato fuori da ogni scala di valori e non per ultimo, il degrado spaventoso del rapporto tra uomo e natura che mette in pericolo la sopravvivenza stessa del pianeta.

E come se non bastasse, allo scontato declino dell’occidente si aggiungeva la sciagura delle utopie totalitarie che hanno segnato la storia del novecento. Con l’instaurazione del regime marxista nel 1944 in Romania, mia Patria d’origine, la persecuzione contro la chiesa, non solo ortodossa, arrivò a forme di barbarie mai verificate nella nostra storia, nemmeno sotto il giogo ottomano. La chiesa greco-cattolica fu messa fuori legge, per essere totalmente subordinata al patriarcato di regime. Vescovi e preti furono incarcerati e molti di loro morirono nella detenzione. I beni della chiesa uniate furono confiscati, i seminari teologici chiusi. I sacerdoti che non ubbidivano al Partito comunista furono rinchiusi o deportati. Con quale animo potrei ricordare la tortura dei preti costretti dai boia a celebrare l’eucaristia con urina e materie fecali, nel famigerato carcere di Pitesti?  I monasteri, quando non erano abbattuti, furono trasformati in luogo di piacere per la nomenclatura di partito.

Quando, alla fine degli anni ’70 una società biblica internazionale offrì al popolo romeno una grande quantità di Bibbie, introvabili in Romania, queste furono confiscate e riciclate in carta igienica. Ai punti di frontiera era severamente vietato introdurre la droga e la Bibbia, messe sullo stesso piano. Un sacerdote mi confidò che era arrivato al punto di suggerire ai suoi parrocchiani di non confessarsi più in chiesa, perché tenuto a riferire alla polizia politica quello che si diceva sotto  confessione. Negli ultimi anni di regime, a Bucarest fu perfino proibito di suonare le campane, per non offendere la libertà di coscienza dei compagni miscredenti.

Ma non è tutto. Mentre nell’occidente si costruivano continuamente nuovi edifici di culto, pur discutibili per la perdita dei valori simbolici fondamentali, nell’est, non solo la costruzione era quasi inesistente (salvo rarissime iniziative popolari nel mondo contadino), ma i bulldozer del potere demolivano le chiese esistenti con criminale idiozia.

In Romania, più di trenta monumenti sacri – gioielli d’arte e di architettura bizantina – furono rasi al suolo senza conservare nulla del loro prestigioso corredo artistico. E ancora, per ingannare il Fondo Mondiale dei Monumenti, chiese appartenenti al patrimonio universale furono caricate su rulli e traslocate con tecniche costosissime, per nasconderle dietro i casermoni dell’orrenda edilizia di regime. Ho visto il documento filmato di nascosto di una messa svolta fra le macerie di una chiesa appena abbattuta: gente inginocchiata, con candele accese in mano e il sacerdote in piedi, fra le rovine, che celebrava la messa, circondati da agenti della securitate pronti ad intervenire per reprimere i “rivoltosi”. Il comunismo era riuscito a distruggerne i muri delle chiesa, ma non le pietre viventi che la compongono. Anzi, più colpiva la materia, più si rafforzava lo spirito. Dalle macerie della dittatura atea la fede è uscita più salda di prima.

Che succedeva invece nel libero occidente? Nessuno toccava i muri delle cattedrali che stanno tuttora splendidamente in piedi. Eppure, la chiesa sta crollando dentro le coscienze. Parlando dei cristiani battezzati che disertano i luoghi di culto, il Papa Giovanni Paolo II li chiama “cristiani invisibili, cristiani muti, cristiani che vivono come se Dio non esistesse”. E non sono stati i rozzi barbari della dittatura del proletariato a demolire la chiesa d’occidente, ma i suoi squisiti filosofi, i suoi liberi pensatori ed “umanisti” che hanno decretato la morte di Dio, avviando l’abbattimento della chiesa di Cristo nella mente umana, con la collaborazione anche, purtroppo, di un certo illuminismo clericale.

Dopo la caduta del muro di Berlino il degrado dello spazio sacro nel mondo cristiano appare ancora più desolante. L’assenza di una cultura del simbolo, affogata in un mare di sigle e segni insignificanti, che nulla hanno a che fare col simbolismo della Grande Tradizione, ha messo in crisi il rapporto dell’uomo con l’arte e l’architettura delle chiese moderne. La nuova iconografia, alienata da un astrattismo che contraddice il senso stesso dell’incarnazione, dilaga nei luoghi di culto. Molti parroci si sono adeguati a questa forma assurda d’arte cosiddetta cristiana, ignorando la funzione di catechesi visiva del simbolo.

La crisi attuale dell’arte sacra, o di ispirazione cristiana, e resa ancora più conflittuale, da una parte dall’abbandono della tradizione a favore dell’astrattismo e di altri “ismi” moderni, dall’altra parte da un fanatismo dogmatico intollerante ad ogni forma di rinnovamento ed arricchimento del lessico iconografico. Esistono nei testi sacri, come per es. nell’Apocalisse, molti simboli non raffigurati ancora dagli artisti. Che cosa sarebbe diventata l’arte italiana se a Giotto fosse stato vietato di andare oltre Cimabue, impedendo il rinnovamento nella continuità della Grande Tradizione?

Oggi, la scarsa conoscenza del linguaggio simbolico (nemmeno nei seminari teologici si studia il simbolo, limitandosi ad un simbolismo liturgico elementare) l’ignoranza palese del favoloso tesoro dei simboli della Bibbia di poveri, che la grande medievalista Marie Madeleine Davy definisce “le pietre miliari del cammino verso la Verità cristiana” – incita ad aberranti accuse di esoterismo, di subdole intenzioni massoniche, di satanismo ed altre perversioni eretiche.

Il contadino analfabeta del medioevo conosceva i simboli della Bibbia dei poveri, scolpiti nella pietra delle cattedrali  – meglio degli scienziati di oggi. Nessuno avrebbe potuto ignorare che l’immagine di una donna dal cui sesso escono due serpenti significa la depravazione, la lussuria. Dio e il demonio erano sempre raffigurati in un binomio che interpretava il conflitto tra il bene e il male. Oggi, in nome di un cosiddetto realismo iconografico, si grida allo scandalo se l’arte osa raffigurare, accanto ai simboli hierofanici, benefici, della vita, il simbolo del diavolo che minaccia l’uomo e il creato, esorcizzandolo come se non esistesse.  E soprattutto oggi, quando ad ogni passo sentiamo la sua presenza malefica.

Incapace di capire la vera intenzione dell’artista nel riproporre il linguaggio dimenticato dei simboli, l’ignoranza e l’incompetenza si scatenano accusandolo di complicità con le forze maligne che vogliono distruggere la chiesa di Cristo. La colpa, prima di tutto, non è soltanto loro, ma dell’insegnamento e della povertà educativa dei media, in una società che dispone di sofisticati strumenti tecnologici di comunicazione intellettuale, utilizzati invece ad altri scopi di lucro.

Torniamo al tema del nostro incontro. All’est come all’ovest, dalle macerie del totalitarismo politico ed economico, dai gulag comunisti a quelli del consumismo obbligatorio del capitalismo, spunta nelle coscienze il desiderio di riconsacrare quel piccolo spazio spirituale chiamato chiesa, dentro questo immenso spazio-silos della nostra civiltà materialistica e caotica.

Ricordo che, nel 1989, eliminato Ceausescu, un giornalista mi chiese: “E adesso, che cosa farete voi, intellettuali dell’est, dopo la caduta del comunismo?” Risposi: “Dopo il fallimento del mito di un comunismo dal volto umano, noi dell’est e voi dell’ovest dobbiamo costruire insieme una democrazia dal volto umano”. Imbarazzato, mi disse: “Che cosa intendi per “volto umano”? “Semplicemente un volto in cui si rispecchi la matrice divina dell’uomo”. Poi aggiunsi: “E’ vero, la democrazia occidentale garantisce alcuni diritti civili ai cittadini, ma è ancora lontana dall’avere un volto umano”. “Perché?” replicò. “Perché il volto dell’uomo d’oggi è degradato, e per costruire una democrazia dal volto umano bisogna ricostruire l’uomo stesso; rimettere insieme le parti di un uomo fatto a pezzi da quattro secoli di vari umanesimi, di vari illuminismi, di vari progetti di utopie più o meno scientifiche”.

La ricostruzione dell’uomo… Mi vengono i brividi pensando a tutta quella ingegneria antropologica che nel comunismo doveva edificare “l’uomo nuovo” destinato ad abitare felicemente le caserme dell’utopia totalitaria. Non si tratta di questo. Non è lo Stato e la politica che devono cambiare l’uomo. Solo la persona può ricostruire se stessa, per diventare quello che San Paolo chiama in verità un uomo nuovo.

In occidente si pensa ancora che si può cambiare l’uomo con le leggi. Immaginate un decreto che dice “Da domani tutti dovete amare il prossimo come voi stessi”, oppure “Da domani nessuno potrà uccidere il suo prossimo”. Nella mia ultima mostra retrospettiva a Santa Maria degli Angeli di Roma, intitolata “Hierofanie – tra speranza e nichilismo” un giovane mi chiedeva: “Che strada dobbiamo prendere, maestro?” Gli risposi: “Voi, la vostra generazione vi trovate oggi, dopo la fine delle ideologie, ad un bivio con solo due alternative: da una parte il gran viale, l’autostrada che porta al nichilismo, alla cultura del No, dall’altra il sentiero della cultura spirituale, del Si, che riconduce a Dio. Dovete scegliere. Capisco la difficoltà. L’autostrada è veloce, accattivante, ma non porta da nessuna parte, finisce nella cloaca magna della delusione. Il sentiero invece è stretto ma porta lontano. La maggior parte prenderà, forse, l’autostrada. Voi, che cosa farete?

Con questa riflessione, concludo.  Perché anche noi, che non siamo più tanto giovani, possiamo ancora prendere la via stretta e faticosa. Per cambiare.

Fonte: Discorso tratto dall’intervento di testimonianza presso il Serra Club di Roma di Camilian Demetrescu, l’artista che ad esempio ha realizzato gli arazzi che oggi decorano  su invito ed accoglienza del Pontefice Benedetto XVI la Sala delle Udienze in Vaticano e Premio ‘Carta della Pace’ conferito dalla Fondazione Paolo di Tarso.

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